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Quanto pesa il bagaglio dell’immortalità?  
Cosa portare via con sé?  
L’uomo che sogna rimescola le memorie.  
Chi entra nel suo sogno non ne vuole più uscire:  
ragazzi, usati come cavie di laboratorio, e scienziati,  
che anelano al segreto per non morire.

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L'uomo che sogna

Leggere chiede un impegno dell’immaginazione, vuole che le vicende narrate siano inserite in un contesto che, per quanto possa essere puntualmente descritto dall’autore, deve necessariamente essere ricostruito dalla fantasia del singolo lettore. Perché chi legge dà nuova vita al romanzo, facendone una personale scrittura visiva: l’aspetto fisico dei personaggi, i luoghi, le scene.  
È il motivo per cui non voglio proporre, in questo paragrafo dedicato ai personaggi, un identikit troppo meticoloso o fornire delle immagini che definiscono i loro lineamenti, fissandoli in uno stereotipo. Il lettore troverà nel romanzo spunti per intuirne l’aspetto fisico e il profilo psicologico che non limiteranno la sua libertà di dipingere i personaggi come lui li vede.

Il personaggio più complesso è certamente Francesco Violante. La sua vita è stata lunghissima e lo ha portato a essere molti uomini: Francesco - giovane e passionale -, il Mercante di spezie - lo stregone/medico medievale/moderno -, Violante - lo scienziato senza scrupoli-. Nei sogni ognuna delle sue personalità è rappresentata da un personaggio diverso e in alcuni sogni essi sono presenti contemporaneamente. 

La natura è  un altro dei protagonisti. L’acqua, vista in tante forme e manifestazioni – fiume, lago, pioggia, mare, cielo sereno nuvoloso o in tempesta – ma anche altri elementi naturali. In alcune parti del romanzo vi è un vero e proprio trionfo della natura per affermarne la rivincita verso l’uomo, che l’ha deturpata con le modifiche genetiche. 

Lo sviluppo dei personaggi dei ragazzi credo che rappresenti molto bene un mio principio: lasciare che ciascun personaggio prenda autonomia e manifesti poco alla volta la sua personalità, senza specchiarmi in lui e senza forzarlo a dire o a fare quello che io direi o farei nei suoi panni. I ragazzi sono costretti a confrontarsi con un mondo già adulto senza aver mai sperimentato in precedenza la vita. Per affrontare questa esperienza devono ri-nascere (ad esempio Roberto rinasce dalla caduta, Renato rinasce dall’immersione nel lago, Teresa rinasce dalle macerie del  bombardamento). La narrazione li accompagna in questa avventura assecondando e affermando il loro carattere. Renato spinto da una inesauribile curiositas, Roberto angosciato dalla paura di finire in un vicolo cieco dove tutto è immutabile, Teresa depositaria delle memorie emotive dell’umanità, Dominique pensatore illuminista disilluso da una rivoluzione che ha tradito i suoi ideali. 

Un altro dei meccanismi narrativi che aiuta il lettore a comprendere i personaggi è il gioco delle coppie. Vi sono similitudini e differenze all’interno di coppie formate da un ragazzo e da uno scienziato (Renato Violante, Tristano Da Crus, Roberto Mercante di spezie) o tra coppie di scienziati (Violante Da Crus o Da Crus Uomo-che-sogna) o di ragazzi (Federica Renato).  
Al lettore scoprire altre coppie e definire la personalità dei protagonisti magari trovando che qualcuno di loro gli è particolarmente affine.

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Così una notte uscimmo dalla reggia, Maria Sofia, voi tiraste su il vestito con un gesto grazioso per salire gli scalini della carrozza, lo ricordo come se lo vedessi in questo momento: il valletto vi porse la mano, ma la sfioraste appena, solo per gentilezza, perché con meravigliosa agilità eravate già seduta ad aspettarmi. Non mi sono mai sentito tanto goffo e impacciato, io alto e magro: un sottile giunco di piombo. 
Napoli ci aspettava, Napoli. 
Il vostro slancio faceva volare la carrozza, non mi sembrava di viaggiare sugli sconnessi basoli della strada, “fate largo alla regina adolescente!” 
Napoli notturna, appena svelata dagli sguardi inquieti come la vostra caviglia dalla sottana sollevata. La montagna di fuoco ci bisbigliava di alzare con rispetto la sottile coltre. Tra il profilo a due gobbe del guardiano di roccia e le colline, era tutto uno scorrere di squarci di vita, immaginari o reali, perché nell’alternanza di ombre e luci che la luna creava nei vicoli densi di case, tra dimore nobiliari, abitazioni popolari rusticamente rifinite e splendide facciate di chiese, spesso si udivano voci narrare o gridare o parlare per provocare. Così cominciai quel gioco, quasi per caso, inventare storie celiando col ricordo di ciò che non era stato. Quella notte lo immaginai per divertirci ma in seguito quanto dolore e quanta follia ci avrebbe portato, quando la realtà sarebbe divenuta impossibile da accettare. Voi mi accarezzaste, mi toccaste la guancia, mentre la carrozza sostava e una voce dal volto sconosciuto cominciava a recarci la sua storia. La vostra mano scivolò sul mio collo e io sentii chiaramente la pulsazione della mia arteria sotto le vostre dita. Come sarebbe stato facile recidere quel sottile filo e con esso la vita. Vi stavo dando tutto, così pensavo, ma anche niente, perché le voci parlavano, quasi cantavano e io mi sentivo portato altrove da quei suoni arcaici, voci fuori dal tempo, tanto musicali da rendere inutile carpire il senso di ciò che dicevano. “Andate, andate,” comandavo, la carrozza accelerò, le sue ruote improvvisamente persero la presa sui lucidi quadrucci del selciato e slittarono di lato, spingendovi tra le mie braccia, strappando ai cavalli un nitrito di dolore. “Uagliò, ma ‘a saje purta’ ‘sta carrozza?”, qualcuno ci guardava dalla finestra nel vicolo. “Cantate, cantate,” pensavo, restammo abbracciati e io avrei voluto chiedervi dei vostri pensieri ma una paura mi frenò, di scoprirli troppo diversi dai miei. “Troppa intimità crea problemi”, me lo diceva mio padre, un re deve sempre saper mantenere le distanze. Eppure Napoli mi stava trascinando, una forza innaturale strappata al nocciolo della Terra, la pienezza di tutte quelle storie scorreva come un torrente impetuoso su cui navigava la carrozza. Non più ruote ma la chiglia sommersa di una barca ci portava al largo, sempre più lontano dalle rive, Napoli dovunque, Napoli abbacinante sotto la luce argentea, Napoli che sfotte, Napoli dai bianchi capelli splendenti, Napoli rincorsa dai cani, Napoli levriero dai fianchi sottili, Napoli che corre, Napoli che ride, Napoli che non può aspettare, Napoli che prende e dà tutto, Napoli che non si nasconde, Napoli che non tiene niente per sé, Napoli che se ne fotte, Napoli coperta dalle onde, Napoli sepolta dal mare, Napoli a viso aperto, Napoli lontana. Sempre più in fondo, senza esitazioni, ancora più avanti, dove l’orizzonte si spezza e le pietre parlano, anche loro vogliono raccontare una storia, per recare dentro di noi ancora e ancora sofferenze d’amore.
Napoli dove non torneremo mai più.


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Chi dice che l’acqua non ha memoria? Fermatevi ad ascoltarne la voce. 
Ogni singola goccia racconta sempre la stessa, antichissima storia.
La spinge la risacca, la soffia il vento, la sostiene un canto leggero che va di monte in monte, rivelandone l’esatta natura. 
La storia della vita è scritta in ogni minuta molecola. Apritela con delicatezza, come se fosse un foglio ripiegato più e più volte su se stesso, e potrete leggerne i segreti.
Si posa su rami e foglie, cade lieve se l’albero è scosso da improvvisi sussulti, scivola e repentinamente svanisce. 
Ama parlare con voce argentina, mescolarsi con le note dei tuoni durante il temporale, rimbalzare e rotolare, descrivendo agili capriole.
L’acqua che precipita dal cielo ha già in sé il colore blu del mare. L’acqua gioca con i propri ricordi.
Guardate, si addensano le nubi! 
Pioggia che non finisce. 
Pioggia che impregna i terreni, si raccoglie sulle cime dei monti e precipita a valle con rombo di cascata, ingrossa i fiumi, spinge sugli argini e si intorbida di fango, svelle le piante dalle radici, trasforma le strade in pantani. 
Renato ha dimenticato il colore della luce. Da giorni non vede il sole. Dal cielo coperto di nubi non filtrano raggi. 
Per questo ha deciso di nascondersi sul carro.


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Alla luce del giorno il mare sembrava un enorme vaso tenuto da mani insicure e tremolanti, dal quale il contenuto traboccasse a ogni sia pur minimo sussulto. 
Renato si disse che l’acqua che continuava a cadere sul suo paese era proprio quella che tracimava dal recipiente troppo colmo. Altrettanto incerto gli sembrava il tragitto della nave, sperduta in un orizzonte senza punti di riferimento, scossa dal movimento di correnti che sembravano poterla sommergere in qualsiasi momento. 
“Timoniere, dove stiamo andando?” gridò, “mi vuoi far credere che girando quella ruota sei in grado di dirigere Vesparia? E poi che ne sai tu di quale sia la direzione giusta?” 
Era salito sulla coffa dell’albero di maestra e agitava il cappello con la mano, come se volesse gonfiare le vele. “Non si vede niente, non c’è niente tutt’intorno se non acqua, alla fine tutta quella pioggia ha fatto sparire per sempre la terra.” 
Il capitano aveva deciso di sottrarlo ai turni in cambusa per sfruttare la sua vista acuta e la sua capacità di descrivere le cose esattamente come le vedeva.
Lui continuava a gridare, osservando le nubi che in lontananza si stavano assembrando compatte e dense, come latte cagliato. “Laggiù ombre nere sul mare, là in fondo. Guarda, alla tua destra, stormi di uccelli che si allontanano. Da dove vengono? Ci sarà un approdo qua intorno?”
“Quanto lontane le ombre?” gli chiese il timoniere,
“Molte leghe,” era orgoglioso di aver imparato a misurare le distanze ad occhio, “almeno venti, laggiù il sole non passa, vento forte, vedo tanta schiuma.”
“Va bene, ora scendi!” la voce imperiosa di Violante, “timoniere, vira a sinistra di venti gradi.”
Il marinaio esitava. Il comandante lo guardò, poi levò lo sguardo verso l’alto dove Renato, reggendosi unicamente alle corde, oscillava nell’aria come se fosse egli stesso un uccello, pronto a spiccare il volo. “Capitano,” gridò, leggero e sfuggente come una piuma agitata dal vento che cambi capricciosamente la sua direzione senza che la si possa afferrare, “vedo tanti stormi, tantissimi, vanno tutti dalla stessa parte.” Fece una capriola su se stesso, rischiando di perdere la presa malcerta, e con tutto il corpo indicò verso la destra della nave. 


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Comincia da una sera.
Una tenera sera di primavera.
I lampioni erano tutti spenti ma, dalle finestre spalancate, le luci delle case rischiaravano le strade. Perché i napoletani erano stanchi di pensare sempre e solo alla guerra.
Una di quelle sere in cui i profumi dei fiori misteriosamente confluiscono in un’armoniosa miscela che si sparge nel labirinto dei vicoli, come una melodia. 
Molti tra gli abitanti non avevano saputo resistere al richiamo, la gran parte se ne stava affacciata ai balconi scambiando battute tra dirimpettai.
Donna Filumena, donna Immaculata, donna Titina, tutte mamme di figli. “Cor’e mammà, addò staje?” “che chiagnite affà? Aspettamme, aspettamme, pure chesta adda passà!”
Da mesi la guerra era ormai entrata in città. Non si pativa solo la trepidazione per chi era al fronte. I civili vivevano con lo stesso sentimento di precarietà. Ogni giorno poteva essere l’ultimo. I sibili delle bombe ricordavano che la vita era appesa al filo del caso e bisognava vivere con la testa bassa, senza pensare al domani. 
Una sera in cui quelli che potevano permetterselo erano ospiti di locali - trattorie e ristoranti - dove gli odori dei fiori si mescolavano con gli aromi del cibo, sussurrando ai clienti parole d’altri tempi. Tempi di pace e di canzoni sentimentali.


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Teresa pensa che il mondo sia più semplice intuirlo che spiegarlo. 
Lo pensa nei pomeriggi in cui sta seduta nella veranda a osservare il giardino. Guarda i boccioli nascere e svilupparsi lentamente, i petali allungarsi, dapprima timidi, poi rigogliosi e prepotenti. A scuola non è andata ma come una minuscola ape saprebbe esaminare ed enumerare tutti i singoli elementi di ciascun fiore, pur non comprendendone la funzione. Istintivamente si carica di piccoli granelli di polline colorato, inebriandosi del profumo del nettare.  
La incuriosiscono molto le sottili tracce mucose che ogni giorno si imbiancano sotto i raggi del sole. Raccontano in trasparenza dei cammini notturni e lenti delle lumache che attraversano il vialetto per andare a cibarsi delle foglie dei gerani, lasciandovi buchi rotondeggianti. Le paragona alle scie degli aerei che solcano il cielo ad altezze sconosciute, simili a graffiti lasciati da un gessetto bianco su una lavagna azzurra. 
Si chiede perché quelle linee eteree siano destinate a scomparire. Le vede allargarsi e scomporsi in piccoli batuffoli di cotone che poco alla volta si diradano fino a diventare invisibili. Si dice che sarebbe bello che fossero indelebili. Le piacerebbe vedere tutti quei segni sovrapporsi e intersecarsi, mantenendo tuttavia ciascuno la propria identità. 
Non le succederebbe più, mentre scivola lungo il loro percorso, di smarrire improvvisamente la traccia e precipitare nel vuoto, cercando vanamente di afferrare un appiglio, come al termine di un pensiero incompiuto.


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Vorrei che tutti conoscessero la tua grazia. Ti giuro che non è lo sguardo della madre a esaltarne la bellezza. La tua grazia mentre infili il calzino e poi il piede nella scarpetta, sorreggendoti con l’altra mano a una colonna. La tua grazia mentre accompagni il mondo che s’incammina verso un nuovo giorno, scrollandosi di dosso il gravoso fardello della notte.
Ma non sono sicura che tutti ne sarebbero conquistati. Allora vorrei abbracciarti per proteggerti da coloro che non sanno comprendere quel connubio di parole e stati d’animo che solo l’amore sa ispirare, l’amorevole congiunzione tra il pensiero che si esprime e le immagini che ne assecondano il percorso, cristallizzando e muovendo, in quell’aria rarefatta che si addice alla bellezza che muta lentamente, conservando per l’eternità la sua leggerezza


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L’umanità del futuro, sfigurata dagli studi genetici, cerca nel sogno la chiave per cambiare il destino.

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L'uomo che sogna conduce i suoi colleghi scienziati in un sogno comune dove incontreranno le loro giovani cavie. In un susseguirsi di emozioni, di eventi e di ricordi, saranno costretti e forzati a mostrarsi e raffrontarsi tra loro. I giovani utilizzati come cavie, privi di esperienze della vita in quanto non l’hanno mai vissuta, vivranno le esperienze vissute dagli scienziati nel corso della loro lunga esistenza e gli scienziati stessi rivivranno le proprie esperienze.  
In un profondo percorso di emozioni, alcune voci narranti si convinceranno che i sentimenti sono un limite, la felicità una leggerezza, la profondità un fallimento. Talvolta si intenderanno l'indifferenza ed il raziocinio come unico percorso per la libertà dell'uomo.  
Tutto ciò li condurrà a confermare e trasformare le loro idee, il loro sentire, le loro scelte ed il perseguimento dell'immortalità fino a capovolgere le loro certezze. 

Appena ho cominciato a leggere il primo capitolo sono stata attratta soprattutto dalla singolare modalità descrittiva delle scene; un modo di scrivere molto particolare, tendente al poetico, ricco di similitudini, di metafore, di personificazioni che ha catturato la mia curiosità e che ha dato spazio all’immaginazione. Mi sono, quindi, tuffata volentieri alla scoperta delle situazioni che si intrecciavano, costruite anche con un lessico molto ricercato e ricco.

Le pagine delle nostre esistenze non possono essere riempite con memorie e ricordi ricevuti da altri, devono essere necessariamente vissute. Sottraendoci esse rimangono bianche per sempre perché “ciò che è perduto non può più tornare”. L’uomo che sogna affida al lettore infinite chiavi di lettura, accompagnandolo tra le “molte anime” di un’affascinante favola post-moderna che emoziona e fa pensare

Il dato essenziale è quella particolare musicalità della scrittura cui si deve la naturalezza con la quale l’autore passa dal colore al disegno, dal colloquiale all’epigrafico, dalla narrazione al pensiero. L’etica che si ricava dalla lettura del romanzo è quella di vedere respinta l’illusione che chiude ogni uomo nella sua particolare esistenza, nella sua solitudine.

— vita e fantasia —

L'uomo che sogna

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