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Il confronto tra ricerca scientifica e spirituale si incarna  
in due fratelli. La loro vicenda familiare diventa un  
paradigma delle passioni e delle aspirazioni umane,  
del senso occulto della vita e delle sue multiformi manifestazioni.  
Una geografia dell’anima si rivelerà a chi sa rinunciare ai propri egoismi.

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I passi che non fanno rumore

I protagonisti principali sono i fratelli Achille e Graziella. Li incontriamo già adulti, ciascuno avviato lungo un percorso che hanno scelto ma che, scopriremo poco alla volta, è stato frutto di vicende dolorose e traumatiche.Il lettore entrerà progressivamente nel loro vissuto personale e troverà i motivi del rapporto che li lega nonostante si siano allontanati l’uno dall’altra.

Graziella è una scienziata dalle grandi qualità – la fatina delle cellule – che per imporsi ha aggredito il mondo “come un soldato disertore intenzionato a salvare a tutti i costi la pelle, cercando, rubando, strappando gli strumenti per riuscirci, mettendoci determinazione e, soprattutto, la cattiveria dei disillusi”. È in procinto di iniziare uno studio importante ma vuole tenere per sé le sue scoperte ed è disposta a ingannare il suo stesso direttore.

Achille ha un “mimetismo dell’anima” che lo porta a lasciarsi attrarre da tutto ciò che lo circonda. La sua partecipazione resta superficiale, come una infatuazione che gii permette di passare avanti lasciandosi alle spalle i guasti che ha provocato. Si fa guidare, per sopravvivere, dalla teoria dei “compartimenti stagni”. È un insegnante di storia e filosofia ma i compartimenti stagni gli permettono di  essere alternativamente giocatore di biliardo, amante del sesso e della velocità.

La narrazione del presente si intreccia con quella del passato prossimo e con quella del passato remoto, da cui emergono le figure dei genitori, Sergio e Sara. «I nostri genitori sono stati lo specchio in cui ci siamo osservati» dice Graziella. Sergio è un ingegnere chimico con un particolare fiuto per i materiali rari, Sara in un momento di debolezza è spinta verso l’occultismo per il desiderio di aiutare il figlio bambino a guarire da malanni misteriosi. Queste esperienze di vita si incideranno nell’esistenza dei due figli più profondamente di quanto si possa immaginare all’inizio del romanzo.

Ci sono altri personaggi di rilievo. Daniela, una donna molto bella che pur non avendo mai lavorato in vita sua ha sufficienti mezzi economici per frequentare le migliori boutique e che diventa amica di Graziella ottenendo un rapporto esclusivo, e Paola, una barista con una storia difficile alle spalle, solidamente ancorata alla vita ma dotata di un intuito speciale che metterà in luce nel corso del rapporto sentimentale con Achille.

Presenze misteriose accompagnano la storia. Ruotano intorno alla figura di Mamma Franca e di Angelo. Il lettore ritroverà alcuni dei protagonisti della vicenda, disposti a manifestare altri aspetti della loro psicologia o a raccontare altri frammenti di quanto è accaduto, raccordandoli a quanto è già noto.

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Così anche quel giorno arrivai in ritardo alla cena e cercai di sgattaiolare verso il primo posto libero senza farmi notare. Mamma Franca aveva già cominciato il tradizionale sermone serale e apparentemente nessuno si soffermò su di me. Però stavolta successe una cosa straordinaria. Le parole di Mamma Franca anziché giungermi col tono e l’intensità consoni alla distanza che mi divideva dalla donna si riversarono direttamente nelle orecchie, come se ella mi avesse afferrato la testa con le mani e mi stesse parlando con la bocca poggiata ai padiglioni: «Quale veleno è nascosto nelle visioni di cui ti stai nutrendo? Il tuo cuore è malato. Sciocco. Ti lasci blandire da una bellezza effimera. Ti lasci inebriare dalle esperienze della vita senza sospettare che quel che ritieni una pienezza di vita non è in realtà che il regno della morte. Solo gli sciocchi ritengono di poter vivere felici sacrificando il ricordo del passato». 
Come faceva a saperlo? Chi le aveva confidato che non ricordavo nulla? Che per quanto mi concentrassi e mi sforzassi non riuscivo a rammentare cosa mi fosse successo? E come poteva conoscere quanto era appena accaduto nel corridoio?
Guardandomi intorno vidi che gli sguardi delle persone erano assenti. Pensai che non stessero ascoltando lo stesso sermone che Mamma Franca mi aveva riservato ma altre parole che lei aveva concepito per ciascuno di loro. 
Quando Mamma Franca finì di parlare ci sedemmo a mangiare. Accanto a me un uomo e una donna stavano discutendo animatamente.
«Mi hanno diagnosticato la neuropragia mesenchimatica diatesica», diceva l’uomo.
«E che malattia è?» 
«Non si sa.»
«Come? Non te l’hanno spiegato?»
L’uomo assunse un tono professorale: «Certo che me l’hanno spiegato. Diatesica vuol dire che è una malattia che si è presentata per indizi ma ancora non si è manifestata». 
«E quali sono questi indizi?» 
«Non lo so, non lo sa nessuno, la malattia ancora non è evidente.» 
«Sì, ma quali segni ha dato per poterla diagnosticare?» 
«E chi s’arricorda! Me l’hanno diagnosticata tanti anni fa.»
La donna si volse dalla mia parte. «E tu che tieni?» mi apostrofò, dandomi un leggero colpo col gomito. 
«Io sto bene», le risposi. 
«Ma ti sei guardato dint’o specchio?» mi fece l’uomo ridendo.
«Perché, che c’è da vedere nella mia faccia?» 
La vicina senza rispondermi mi prese la mano destra e mi fece sfiorare con le dita l’occhio. Poi mi prese l’altra mano e fece lo stesso con l’occhio sinistro. Avvertii una consistenza diversa, dura e innaturale. 
Anche l’uomo affetto da male incerto quanto grave ritenne di interessarsi per un momento delle mie vicende. «Almeno tu te sì levat’o pensiero. Zack! E via. Ma proprio a me m’era capita’ ‘na cosa ca nun se capisce che cos’è e nun se sana mai!» 
Avevo scoperto già da tempo che coprendo l’occhio sinistro la mia visione del mondo non si modificava mentre chiudendo l’occhio destro vedevo solo buio sebbene inconsciamente avessi cercato di nascondere a me stesso la gravità del problema. 
La donna lasciò cadere la mia mano e con la sua mi toccò la palpebra, poi fece scivolare lentamente le dita lungo lo zigomo e la gota. Mi accarezzò più volte, ripetendo il gesto dall’alto verso il basso. Sentii qualche timida lacrima scendere a bagnarmi entrambe le guance. Era il primo gesto di umanità che ricevevo … da quanto tempo? Non ne avevo memoria.
«Non lo sapevi?» mi fece la donna. «Non lo sapevi?» mi ripeté.
«La solitudine», dissi, «non ha bisogno di certe domande».
«La solitudine non smette mai di parlare perché ha una voce che nessuno ascolta.»


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Quella notte avrei dovuto smettere di giocare. Per sempre. Si diceva che avessero teso un agguato a dei tifosi della mia squadra e che avessero ucciso un ragazzo con una pistolettata. Io sono uno della strada, uno che non si è mai tirato indietro. Quando quelli della curva cominciarono a fare casino e a dire che non si doveva giocare, io fui d‘accordo con loro. Spararono una raffica di mortaretti per far capire che facevano sul serio. Per cinque minuti lo stadio divenne un campo di battaglia. Poi giocammo. Ragioni di pubblica sicurezza, fu la motivazione ufficiale. La solita scusa meschina. Loro acconsentirono perché il ragazzo non era morto, era solo ferito. 
«Io mi scordai di tutto giacché il mio mestiere era quello, e quello ero io. Alla fine vincemmo. Noi giocatori festeggiammo e facemmo baldoria ma i tifosi della nostra curva stettero zitti. Stettero così per tutto il tempo, in piedi, per tutta la partita e anche dopo. Hai idea di cosa sia la curva di uno stadio impietrita, fitta di esseri umani? Una parete verticale, un muro di diecimila persone, ferme e immobili, che a stento fiatano ma non lo danno a vedere e ti osservano. Non guardano lo spettacolo, osservano quelle ventidue geniali marionette agitarsi come si possono osservare dei pesci in un acquario. 
«Ma noi solo quello sapevamo fare, giocare a football! Io segnai calciando il pallone direttamente in porta da una punizione, proprio sotto quella curva. Nessuno di loro esultò, i mortaretti erano serviti per fare la guerra e non potevano essere usati per festeggiare. Quelli che non avevano usati se li riportarono a casa. 
«Molti tra di loro erano persone della strada, come me, sicuramente c’erano dei delinquenti, gente con precedenti penali, gente di ogni specie, non voglio elencarli, il tifo non guarda queste cretinate di differenze sociali o di vita. Eppure quella sera sono stati bravi. Hanno giocato la loro partita meglio di noi. 
«Oggi che ci penso mi vedo come uno che è sceso nell’arena di un anfiteatro romano. Solo che io non ero il cristiano da sbranare, ero il leone. E le mie prede erano proprio loro, quelle ombre mute e senza volto assiepate fittamente sugli spalti, che per passione viaggiavano, soffrivano, esultavano, gridavano, cantavano, protestavano, insultavano, bestemmiavano e facevano cazzate. Io e gli altri in campo eravamo dei carnivori spietati che si cibavano di tante passioni. In fin dei conti non era importante se quello sparato fosse dell’una o dell’altra tifoseria. La totale indifferenza di quel muro di persone ci avrebbe dovuto fermare. Ma quella sera già esultavamo. E il giorno dopo era tutto come prima. Di nuovo tutto esattamente  come prima. Anche se quello sparato alla fine è morto.


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Quei personaggi erano accomunati dalla medesima mancanza di tratti distintivi. Resi scialbi da quell’anonimato che ti aspetti di trovare nei centri commerciali o negli aeroporti o nelle stazioni ferroviarie ma non in casa tua. Gente curata, ben vestita però incapace di lasciare un’impronta personale. Acquirenti e viaggiatori, addestrati a passare inosservati. 
I primi tra quegli individui si tenevano per mano con la mamma e le insegnavano la meditazione. Col tempo la introdussero alle esperienze extracorporee, lei le definì esattamente così. In quei momenti, senza che lei se ne accorgesse, le lasciavano le mani come un addestratore che molli le corde che tengono soggiogato il suo allievo. 
Provare la vertigine, provare lo sgomento, provare la paura. Fissare un punto. In quel punto passa il tuo corpo. Guardarsi da fuori. Guardare il pensiero cosciente da fuori, come se fosse un pacco o una valigia. Deposto a terra. Il corpo è sottile, passa senza lasciare tracce. Vincere la vertigine, vincere lo sgomento, vincere la paura.
All’inizio la mamma gli raccontava tutte quelle cose e gli spiegava ciò che apprendeva. Volle che anche lui provasse la meditazione ma senza andare oltre. Rinunciare a se stessi, rinunciare ai propri pensieri, rinunciare alla propria individualità. Non sentirsi parte. Non anelare o sperare. Sentirsi il Tutto. Identificarsi con il Tutto.
Qualcuno le insegnò che quel percorso imponeva il silenzio e lei dovette spiegarlo ad Achille. Era arrivata alla necessità di allontanarsi da casa. Di Graziella temeva la capacità di ostacolarla, di Achille invece la curiosità e quel mimetismo che la sua anima le andava svelando come dote precipua.
“Accettare la trasformazione” “Affrontare la mutazione della propria struttura più profonda come un atto della volontà”  “Sentire la forza” “Afferrare la bestia” “Dominare le acque” “Affermare se stessi, in sapienza e potenza”. Achille sfogliava di nascosto i suoi appunti e si chiedeva cosa significasse questo nuovo passaggio. Vedeva dei simboli appuntati a margine dei fogli. Li fissava fino a sentirli dentro di sé. Con una grafia diversa, quasi infantile, la mamma aveva scritto: “non è possibile tornare indietro, non è possibile fermarsi”.
Graziella invece lo bombardava di domande sulle materie scolastiche. Pretendeva che il fratello andasse a scuola sempre preparato sulle lezioni del giorno. Lui ogni tanto saltava delle giornate per le sue celebri malattie. Graziella per prima cosa consultava il medico, poi si faceva dare i compiti da fare dai suoi compagni di classe. La mamma preferiva chiudersi in camera e concentrarsi. L’avevano messa in guardia dal tentare di guarire le persone con l’energia della mente. Non le era consentito oltrepassare quel confine che solo pochi illuminati potevano superare perché preparati a patirne le conseguenze. Così lei offriva il fiore della sua meditazione, come un credente che va in chiesa ad accendere una candela votiva. Le sembrava di attraversare la porta e di accedere in un’immensa sala dove volteggiavano esseri senza corpo. “Sono fantasmi, le ombre dei tuoi pensieri in uno stadio precedente della tua evoluzione, le impronte di persone che hai conosciuto.” 
Certamente la mamma aveva scardinato la paura. Graziella aveva ragione: si era spinta troppo oltre. 
Ma per la mamma non c’era altra scelta: Achille continuava ad ammalarsi.


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Era quello il suo posto. 
Si sentiva deposta sulla spiaggia dalla mano di un Polifemo che l’aveva tenuta delicatamente tra due dita, il pollice e l’indice, prima di poggiarla sulla sabbia. Un oggetto raro e delicato. Sparirono tutti i rumori e tutti i suoni intorno a lei. Il mare stava avanzando lentamente, coprendo le cosce, inumidendole lo slip del costume. Il Polifemo le aveva sistemato le braccia ai lati del capo, con i gomiti lievemente flessi. Non sentiva più la consistenza della parte inferiore del corpo, quasi il mare le stesse dando una nuova identità, costruendola pezzo dopo pezzo. Percepiva che il bacino era ormai completamente immerso e avvertiva le oscillazioni della risacca aumentare e ridurre ritmicamente la pressione tra le due natiche.
L’acqua raggiunse la concavità del ventre ma non si accontentò, le bagnò il reggiseno, sotto il quale premevano due capezzoli turgidi e tesi, salì sul collo, infine le sommerse il volto senza che lei facesse opposizione. Aprì la bocca per respirare e l’acqua entrò dentro di lei. Tutte le acque dei maestosi oceani.
Graziella abbandonò le braccia e lasciò che l’acqua le riempisse i polmoni. Annegò, seguendo il suo destino, ma senza morire. 
Il Polifemo le aveva sussurrato che lei sarebbe stata l’ultima donna a vivere sulla Terra, che le acque avrebbero cancellato il mondo e tutte le sue creature, privando la Terra della possibilità di generare nuova vita, ma che lei sarebbe sopravvissuta, unica, da sola, nel profondo degli abissi.


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Achille se ne andò, senza salutare, senza chiudere la porta, scese le scale a piedi senza vederne i gradini. Si lasciò alle spalle l’usciere seduto alla scrivania, le porte del tribunale, le cancellate che tra un poco sarebbero state sprangate, i vetri blindati, il picchetto di guardia, i posti di blocco dei militari con i mitra in spalla, i dissuasori, i blocchi di New Jersey, le bandiere dell’Italia e dell’Unione Europea, i bar affollati di avvocati. 
Salì in macchina e poggiò le mani sul volante. 
Spense il registratore. 
Fu come spegnere un interruttore nel proprio cervello. E immediatamente si accese quell’altra luce. Dalla testa gli scese nel basso ventre una sensazione di vuoto che doveva necessariamente colmare. Necessariamente. L’unica cosa da fare. L’unica. Si sentiva invulnerabile, invincibile. Mise in moto l’auto. Ci pensava da mesi. La vagheggiava come un’esperienza possibile, di quelle che nella vita prima o poi occorre affrontare. Ma il muro da superare gli appariva ancora troppo alto. 
Questa era un’altra cosa. Questa e poi nient’altro. Non avrebbe scavalcato il muro. Lo avrebbe sfondato, lasciandosi dietro le spalle solo macerie. 
Guidò fino a uscire dalla città e prendere la provinciale. I caseggiati ai lati della strada andavano diradandosi. Di tanto in tanto comparivano dei capannoni industriali, molti dei quali in evidente stato di abbandono. La campagna aveva un aspetto malsano come se nelle proprie viscere covasse veleni. I pochi alberi erano spogli, erbacce malefiche crescevano nei rigagnoli che correvano paralleli al suo percorso e in cui si raccoglievano le acque piovane. 
Qua e là buste di spazzatura si offrivano all’esplorazione di animali selvatici, una carogna di cane investito da un’auto andava putrefacendosi, qualche brandello di tessuto sventolava tra i rovi, infilzato dalle spine. 
Poi imbrunì e cominciarono i fuochi. 
I fari della macchina si accesero automaticamente. Achille fu felice di essere dentro a quell’oggetto metallico, fornito di un’intelligenza limitata, di tipo automatico, ma sufficiente a essere uno strumento obbediente alle sue necessità. Ben forgiata, non diversamente da una lancia o da un gladio o da uno scudo istoriato. Stava a lui manovrarla. Ora più che mai si sentiva un eroe.
Le puttane non stavano come d’estate distribuite regolarmente ogni duecento, trecento metri. Si erano raccolte in piccoli gruppi intorno ai falò per riscaldarsi. Accostò al primo che incontrò e le guardò. Loro risposero al suo sguardo, promettendogli qualsiasi cosa lui avesse desiderato. “Io desidero tutto perché io sono immortale”, pensò e si convinse che loro avessero capito. 
Era il momento di dimostrarlo.
Nonostante il freddo non avevano la gonna ma solo il perizoma e, quasi tutte, indossavano un corto pellicciotto che tenevano aperto sul davanti. Ne prorompevano tette di diverse dimensioni, coperte a mala pena dal reggiseno. Mentre si avvicinava con la macchina una di loro si mise il pollice in bocca e lo succhiò. «Vieni tesoro», gli disse un’altra, l’unica che teneva la pelliccia abbottonata. L’aprì e per un attimo si mostrò completamente nuda. 
Achille abbassò il finestrino e disse: «Vi voglio tutte.» «Buffone!» «Tutte insieme o una alla volta?» «Ti va di perdere tempo?» 
«Quanto volete?» «Dipende da quello che vuoi tu, amore!»  «Prezzi singoli, però», disse un’altra. «Ti facciamo lo sconto se veramente ce la fai.» 
Si sentiva il Dio dell’Amore. Cosa poteva fermarlo?


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Mi alzavo quando era il momento di andare a mangiare. Avevo fatto amicizia con un cameriere che mi metteva da parte qualcosa di mio gradimento dal menù del giorno e mi preparava un tavolo in disparte, a cui mi accostavo solo se gli altri avventori si erano allontanati. Lo ammetto, un’amicizia prezzolata, eppure non avvertivo nessun fastidio nel riconoscerla tale. Chi svolge con disinvoltura lavori di accoglienza ha quel certo savoir faire che rende naturale l’elargizione della mancia, svincolandola dal ricevere in cambio certi beni immateriali: un sorriso nel presentare le portate o una battuta spiritosa. Tutto molto friendly. Tutto scivola via con naturalezza, la stessa banconota evapora nel breve contatto tra le due mani e sparisce come se non fosse mai esistita.
Resto sempre incantato da chi sa far bene il suo lavoro. La facilità dei gesti, la scorrevolezza del pensiero, la naturalezza dei comportamenti, l’apparente semplicità. Quando tornavo in me comprendevo che il tutto era totalmente impersonale. La mia stessa presenza, la mia essenza. Un ospite di passaggio come tanti altri avvicendatisi prima di me o che si sarebbero presentati dopo di me. La stanza, il letto, il ristorante, il cameriere, l’isola stessa erano gli ingredienti di una pietanza che veniva continuamente rielaborata e riproposta. Queste riflessioni contribuivano a fiaccare la mia tenacia che si stava poco alla volta sbriciolando come le coste dell’arcipelago, erose e polverizzate dall’incessante attrito degli elementi naturali.


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Achille non aveva mai amato il termine esperimento. Gli preferiva “esperienza”. Anelava che fosse la vita a proporsi con quello strapotere che lui sentiva di poter sempre ammansire come un figlio prediletto. Non era mai troppo vicino al fuoco. La paura non riusciva mai a fargli fare un passo indietro. Lui era al tempo stesso il getto di metallo fuso dalle alte temperature, la forma scelta per modellarlo e l’anima rovente che doveva lentamente placarsi all’interno della forma. 
A volte gli succedeva di scendere troppo in profondità. Quell’immagine della profondità, quella fantasia, era cara a entrambi i suoi genitori anche se cercavano cose diverse. La madre si calava nella propria interiorità, sicura di poter attingere a un livello più elevato di conoscenza e di dominio, di poter essere padrona di se stessa, impersonificandosi nel mondo. Il padre era un segugio che fiutava le vene dei metalli e dei materiali che la natura celava.
Per Achille era diverso. Lui si abbandonava sfrenatamente agli impulsi, continuando ad aprire porte, infilandosi in qualsiasi passaggio si mostrasse davanti a lui.


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La discordanza è un esito inatteso, la combinazione che non esiste e invita a esplorare l’ignoto.

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Molteplici sono le forme e i discorsi utilizzati per recuperare il senso dell’identità: lo sguardo che implode verso la profondità del soggetto e allo stesso tempo nell’assoluto, è inevitabilmente multiplo, perché comprende tutte le contraddizioni, anche quelle della coscienza.  
I monologhi, le cronache, i racconti, l’allegoria, nell’organizzare il “caos percettivo”, secondo la felice definizione di Borges, formano una sorta di circoli concentrici il cui punto focale è la coscienza di una protagonista che, presentata da differenti prospettive, acquista particolare densità e spessore.  
Caratteristica comune è la destrutturazione narrativa lirica, tipica tra l’altro della scrittura che compie un atto di giustizia.  
Attraverso il flusso di coscienza, la forma onirica e meta-narrativa costituita da monologhi, da allegorie e da racconti, strettamente vincolati alla ricostruzione di eventi reali, lo scrittore ne amplifica la percezione e crea una visione totalizzante, priva di ogni limite, costantemente tesa alla ricerca della verità maieutica.


La Storia si muove su binari e su tempi diversi, non necessariamente lineari, in luoghi geografici e dell’Anima oscuri ma luminosamente simbolici, i Personaggi ( Achille, Graziella, Daniela, Paola e tutti gli altri secondari ma non meno importanti ) sono arrivati, lungo strade diverse, ad un momento di svolta, voluta o subita, nella propria Esistenza e i nodi del passato andranno sciolti ma i fili del Destino che si ritroveranno tra le mani non resteranno a lungo liberi ma si riannoderanno nuovamente e stavolta diversamente. L’Autore, fedele al suo stile, li accompagna con un ritmo ondeggiante, li fa emergere per qualche attimo dalle profondità del loro vissuto e poi li segue nuovamente nelle loro immersioni, in un moto continuo che sembra più dettato dal Destino che dalla loro volontà.

I personaggi del romanzo sono mossi da una necessità di trasformazione, di uscire dai propri schemi, dalle proprie corazze, dalle proprie maschere e mascheramenti, dai “compartimenti stagni” con cui hanno organizzato la propria vita invece di viverla e nelle loro vite vengono a innestarsi degli elementi che, come proprio accade alle cellule di una piastra del Petri che, inoculate con una nuova sostanza, si modificano e si evolvono, li spingono a rivedere tutto quello che sapevano o immaginavano del proprio comune passato.

Il passato è fondativo del futuro e il futuro ci permette di comprendere il passato se solo consentiamo al nostro sentire di liberarsi dalle catene che proprio noi gli poniamo, in un inutile e faticoso tentativo di limitare il dolore che semplicemente e naturalmente accompagna la nostra vita. Il senso di spaesamento che ho tratto dalla lettura è amplificato dagli “intermezzi dall’Isola”, come li soprannominati io. Sono eventi, immagini, pensieri, che provengono da un altro luogo, un’isola, un altro continente, dove si vive un diverso tipo di realtà, che però riverbera i riflessi della storia che noi stiamo già seguendo, dei tempi che stiamo vivendo. In questo luogo altro, più che assistere, riusciamo a vivere la trasformazione, lo sfaldarsi e il ricostruirsi, il rivelarsi del lato opposto di ciò che sappiamo e vediamo, la coniunctio oppositorum che permette il realizzarsi della individuazione, prendendo in prestito un termine caro a Jung.

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